Jepis, il menestrello

(di Pasquale Sorrentino)

JEPIS, IL MENESTRELLO
(storia di uno degli ultimi cantastorie).

Seduto un muretto in pietra, alle spalle una panorama bucolico e di fronte, seduti di fronte a lui, ragazzi e ragazze con le gambe incociate pronti ad ascoltare. Magari ha un menestrello in mano dal quale partono alcune note di richiamo, un sottofondo di accompagnamento. Poi la sua voce. Calda e ondulata al modo giusto. Né troppo forte, né troppo debole. Cammina, la voce, né troppo lenta, né troppo veloce. La figura iconica del menestrello, nel mio immaginario, nasce così da un gallo, quello di Robin Hood cartone animato. Quello di Sir Biss per intenderci e del fischiettar che ancora mi riempie la testa. Per colpa di quella visione ho sempre immaginato i cantastorie così. E forse lo sono davvero così nell’animo. Di certo lo è – così nell’animo – anche Jepis, cantastorie di bottega, artigiano del racconto che con la narrazione riesce a catturare attenzione e far vedere cose che non ci sono. Ma esistono. Ha la capacità, Jepis, di far vedere le immagini con la parola, di far assaporare gli odori e i sapori con la voce, di far sentire i rumori con il movimento delle mani, di far tastare oggetti con la potenza dei silenzi. Un moderno cantastorie. Come si suol dire nel tempo d’oggi: un menestrello 2.0. Non usa, ovviamente, il menestrello e non usa neanche solo la voce. Jepis, con lo sfondo dei grani di Caselle, dove si svolge uno dei pali del grano più famoso, usa gli strumenti che il presente gli concede per raccontare ciò che merita di essere raccontato. Non solo, però. Jepis usa meravigliosamente soprattutto però il mezzo che è sempre stato l’unica vera arma dei cantastorie: la parola. Ci gioca con le parole, le modula e le utilizza scegliendo con certosina attenzione quale prendere dall’infinito mazzo. Ci ha anche scritto un libro sulle parole e sull’arte di usarle. I cantastorie artigianali sono esemplari in via di estinzione, perché usano sì il tempo per raccontare ma non si fanno usare dal tempo. Non hanno limiti di orologio e né amano la sintesi, perché per i menestrelli la sintesi vuol dire togliere essenza al racconto. Non c’è un aspetto marginale in quello che narrano, non c’è nulla di inutile nelle loro storie, né le virgole, né un aggettivo in più. I cantastorie resistono così, in un mondo che non vuole sentire ma vedere, in un mondo che vuole commentare senza sapere, in un mondo che vuole parlare e non ascoltare. Jepis però resiste, si siede sul muretto, schiarisce la voce e ne racconta un’altra. Racconta la vita.